Due tè possono bastare (racconto)

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In occasione della Giornata Mondiale del ‘Fiocchetto Lilla’ dedicata ai Disturbi Alimentari, pubblichiamo un racconto inedito di Teresa Tortoriello:

Due Tè possono bastare

Due tè possono bastare, per pranzo. E poi di nuovo al lavoro, in corsia. La signora della stanza 18 mi ha chiesto un “selfie” e glielo devo. Domattina potrebbe non esserci più… e se fossi io a non esserci più? Sarebbe tutto finito, finalmente. Ma eccoci qua, a questo non devo pensare, proprio, l’importante è che questo corpo che mi porto dietro non l’abbia vinta, lui.

E così va avanti tutte le mattine, questa vita che vivo per gli altri, oramai. E’ l’unica ragione per cui ci sono ancora, tra voi, siete voi l’unica ragione. Vorrei dirlo a tutta questa gente che viene qui, piena di speranza e trova, qui, tanta disperazione. Ma forse lo sanno già, lo capiscono dai miei sguardi, da queste mani che mi tremano quando loro le cercano.

Ho scelto di stare qui, in questo reparto di terapia del dolore, perché di dolore me ne porto dentro tanto e non riesco a trovare la mia, di terapia. Viene da lontano, questo dolore, dai quei giorni nei quali cercavo il tuo sguardo e tu neanche eri capace di vedermi. Ero bambina, sì, una bambina capricciosa che vi rovinava le giornate, a te e alla mamma, e da allora mi sono convinta che era meglio se non fossi nata.

Gli anni sono passati ed ho fatto sempre quello che volevi tu, sempre per avere la tua stima, sempre per un sorriso che non veniva mai, e allora ho cominciato a capire, ad odiare il mio corpo perche era   quello che non ti piaceva, o almeno credevo così. Non mi hai dato mai il modo di capire cosa non ti andasse bene di me, ma una cosa era sicura: non ti piacevo per niente. Mai tempo per me, mai un sorriso, neanche mi ascoltavi.

Dovevo farne a meno, di quel corpo, punirlo, in qualche modo, evitare che sbocciasse come un fiore a primavera. Avevo quattordici anni e ne sentivo tutta la prepotenza, dovevo schiaccialo, comprimerlo, bloccarlo in qualche modo quel corpo che veniva fuori. Ce la posso fare, mi sono detta, e allora ho cominciato a capire che il cibo era il nemico del nemico, lo nascondevo dappertutto, perfino nel cuscino, e se ero costretta a mangiare, scappavo a vomitare in bagno.

E, frattanto, studiavo, studiavo, studiavo, in maniera frenetica, le ore passavano senza cibo, ma io studiavo. La vita intorno sembrava normale, nessuno si accorgeva di nulla. Poi, finalmente, il corpo ha dato un segnale, quella magrezza, il solo scopo di questo progetto, il premio dello specchio che non guardavo da tempo. Ecco, ora posso davvero dire perché non ti piaccio, papà.

Sono un medico, oramai, ma quest’ansia non mi passa, è un’ansia che so riconoscere, negli altri e in me stessa. Ho incontrato un ragazzo, l’altra sera, avrei voluto dirglielo che non potrò mai essere donna per lui, ma lui ha capito in un attimo e non è andato via. Perché tu solo non hai capito, papà? Se questo mio corpo continua a tormentarmi, se da questo dolore non riesco a venir fuori, è perché ci sei tu, in tutto questo.

Marco, si chiama così, mi ha presentato un amico, dice che può aiutarmi e ci voglio provare. Ho paura, so che dovrò imparare a seguire tanti rituali. Non prometto niente, non sarà facile cominciare ad amarmi. Lui dice che posso farcela, se voglio, e lo voglio per Marco. Questo percorso di terapia è lungo ma ogni giorno ce la faccio ad andare avanti, non so come, ma ce la sto facendo. Devo, assolutamente devo, trovare il coraggio di dirtelo: sei tu che non mi piaci, papà.

 

Sono passati alcuni anni, ormai, e Francesca lavora con la dedizione di sempre al reparto Terapia del dolore, ha sposato Marco ed ora aspettano un bambino

 

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